Non un (diritto) di meno !

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di M. Micaela Bartolucci

22 maggio 2018

 

Il 22 maggio 1978, in Italia fu promulgata la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, confermata da un referendum nel 1981. A quarant’anni dalla sua adozione, il pieno accesso all’interruzione volontaria di gravidanza come previsto dalla legge resta ancora da garantire.

Pubblichiamo questo contributo di M. Micaela Bartolucci.

Aggiungiamo diritti, togliamo differenze, la lotta di classe e/è la lotta per la parità di genere.

Da molto tempo ormai le parole d’ordine del neoliberismo sembrano togliere diritti ed aumentare le differenze, questo per frammentizzare la società ed orizzontalizzare il conflitto così da ostacolare il più possibile la verticalizzazione dello stesso.

Dividi et impera, niente di nuovo.

Affrontare tematiche che, per anni, sono state quasi esclusivamente trattate dalle diverse organizzazioni femministe è, non solo, utile ma di importanza capitale in questa fase storica; affrontarle da un punto di vista di classe, non meramente di genere, cercando di partire dall’osservazione diretta della realtà italiana, interrogandoci e tentando soprattutto di trovare soluzioni percorribili.

Aborto, asili nido, consultori, disparità salariale, distribuzione dei compiti, educazione sessuale, famiglia, femminicidio, figli, maschilismo, parto, patriarcato, prevenzione, prostituzione, relazioni, scuola, separazioni, sfruttamento, transgender, utero in affitto, violenza…

Tanti sono gli argomenti da analizzare se si vuol parlare di diritti: di quelli che ci stanno togliendo lentamente, uno alla volta, molti dei quali legati da un filo che si intreccia con quelli mai avuti o mai realmente riconosciuti.

Parto dalla A di ABORTO:

un diritto inalienabile, vitale, irrinunciabile per le donne, per tutte le donne.

La storia ed il testo possono essere letti su moltissimi siti internet, non mi dilungo.

Il 22 maggio del 1978, esattamente quarant’anni fa, entrava in vigore la legge 194.

Diciamo subito che la 194 nasce già come imperfetta ed incompleta; manca per esempio, una normativa chiara sull’obiezione di coscienza.

Una struttura sanitaria pubblica può ammettere l’obiezione?

Qual è la percentuale di obiettori che dovrebbe essere ammissibile affinché un diritto, sancito per legge, non venga alienato?

Chi dovrebbe sorvegliare sull’applicazione di eventuali regolamentazioni in tal senso?

Oggi, in Italia, la percentuale di obiettori, negli ospedali, chiaramente parliamo di pubblico, è del 70%, con punte che superano, come in Molise o in Trentino, il 90%.

Su 94 ospedali con un reparto di ginecologia ed ostetricia, solo 62 possono garantire l’IVG, cioè circa il 65%.

Le regioni, che sono responsabili delle assunzioni del personale medico non si sono, evidentemente, poste il problema se ci sono ospedali in cui la percentuale degli obiettori sale al 100%, come avvenuto recentemente ad Ascoli Piceno, Foligno o al San Camillo di Roma.

La situazione italiana, in tal senso, è talmente anomala da far intervenire la Commissione per i diritti umani dell’ONU che, in una nota, scrive “Preoccupa la difficoltà di accesso agli aborti legali in Italia a causa del numero dei medici che si rifiutano di praticare l’interruzione di gravidanza per motivi di coscienza” (29 marzo 2017).

Questa nota arriva dopo quella, dell’anno precedente, emanata dal Comitato Europeo per i diritti sociali del Consiglio d’Europa.

Il problema c’è e si vede benissimo.

Le diverse proposte di legge che sono state avanzate per normalizzare una situazione ormai insostenibile, sono rimaste, fino ad ora, lettera morta.

A questo si aggiunga lo smantellamento dei consultori, in particolare di quelli che si occupano della salute psicofisica della donna e quindi anche di IVG: i consultori familiari furono istituiti con la legge 405 del 1975 come servizi sociosanitari integrati di base a tutela della salute della donna, nel suo complesso e della famiglia in generale.

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Luoghi in cui si potevano trovare non solo medici ma psicologi, non solo prestazioni mediche ma, soprattutto, ascolto.

Nel corso degli anni grazie ai tagli alla sanità il numero dei consultori è drasticamente diminuito: in un solo anno (2010-2011) ne sono stati chiusi quasi 100 e in quelli ancora in funzione è stato ridotto non solo il personale ma l’orario di apertura.

La legge 34 del 1996 ne indicava uno ogni 20000 abitanti, oggi siamo con una media di uno ogni 28500 con punte di 1/50000 in Friuli o addirittura 1/78000 in Molise, questo per il numero di consultori in generale.

Ma se parliamo di quelli esplicitamente dedicati alla salute psicofisica della donna, la situazione ovunque, sul territorio nazionale, è grave: gli orari di apertura sono limitati e, nella maggior parte dei casi, non compatibili con quelli di una donna che lavora; ma non solo, il personale è carente, mancano ginecologi, anestesisti certo, ma anche psicologi, psicoterapeuti, psichiatri…mancano ascolto, supporto, conoscenza e prevenzione.

Osservando sommariamente la situazione umbra notiamo che, per esempio, a Terni ce n’è solo uno aperto dal lunedì al sabato dalle 8,15 alle 13,30 e dal lunedì al giovedì dalle 14,30 alle 17,30; migliore la situazione a Perugia dove si sale a tre ma gli orari di apertura sono a dir poco ridicoli in fatti, per fare alcuni esempi, quello di via xx Settembre è aperto il lunedì dalle 15,30 alle 17,30 ed il martedì e mercoledì dalle 9,00 alle 12,00; a Madonna Alta il martedì dalle 9,00 alle 12,00 e dalle 15,30 alle 17,30, il mercoledì e giovedì dalle 9,00 alle 12,00. A Perugia, una donna che lavora non può, di fatto, assolutamente servirsi delle prestazioni dei consultori, non solo cittadini ma di tutta la ASL 2, perché gli orari di apertura di tutte le strutture sono del tutto incompatibili con gli orari di lavoro.

E’ una presa in giro oltre che una vergogna.

Una carenza pericolosa che si somma alla mancanza di diffusione di informazione organica tra i giovani. Assolutamente insufficiente nelle scuole, quando c’è, la diffusione di un programma di educazione sessuale e prevenzione che permetta di coadiuvare le famiglie nel favorire lo sviluppo di una coscienza sessuale edotta sulle problematiche relative alla contraccezione, ai rischi legati alla sessualità ed alle implicazioni psicologiche.

L’educazione all’affettività ed alla sessualità in Italia, non è obbligatoria perché non fa parte del Programma Ministeriale, tutto è delegato alle iniziative proprie delle singole scuole. Questo fa sì che non esistano standard nazionali per il suo insegnamento e che le singole organizzazioni che se ne occupano siano legittimate a portare avanti i messaggi che vogliono, ogni scuola insomma ha il diritto di scegliere se e come parlare dell’argomento.

Se dagli anni ’90 ai primi anni del 2000 i programmi di educazione sessuale coprivano quasi la totalità degli istituti superiori, grazie alla campagna ministeriale contro l’HIV, col passare degli anni e la progressiva diminuizione dell’allarme relativa a tale fenomeno, la situazione è stata capovolta arrivando all’attuale stato di fatto.

Eppure questa completa disinformazione ha effetti negativi evidenti, basti pensare anche solo al rapporto dell’Istituto Superiore della Sanità del 2007 che ci informa sull’aumento dei casi di HIV.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ci dice che l’educazione sessuale, nei paesi in cui è attivata, ha portato ad una diminuizione delle gravidanze adolescenziali e degli aborti, nonché delle malattie sessualmente trasmissibili, compreso l’HIV.

Allora, quando si parla di 194, quando i crociati la attaccano, quando la si vorrebbe rimettere in discussione, quando le armate si schierano per farci tornare indietro, è necessario rispondere, conoscere, reagire.

 

Non difendiamo solo e semplicisticamente il diritto inalienabile alla scelta, difendiamo la nostra salute, prima ancora che fisica, mentale, difendiamo il diritto all’assistenza, all’informazione, alla prevenzione cosciente.

Indietro non si può e non si deve tornare, nessuna trattativa, nessun se, nessun ma; dobbiamo dirlo chiaramente: giù le mani dalla 194!

Se la si manomette, sarà solo per migliorarla, renderla maggiormente usufruibile, limitando al massimo l’obbiezione di coscienza, ampliando e potenziando il raggio d’azione dei consultori, portando avanti una campagna di sensibilizzazione anche, ed anzi soprattutto, promuovendo un’adeguata informazione sessuale nelle scuole, migliorando il supporto psicologico.

L’aborto non è un anticoncezionale, è una scelta durissima, la più difficile e la più dolorosa che una donna possa fare, è lancinante, distruttiva ed altamente lesiva psicologicamente: una sconfitta, una resa difronte alle difficoltà, un calvario umano che, di fatto, è peggiorato e reso ancora più duro dalle condizioni materiali in cui la maggior parte delle strutture lo svolgono.

Manca il rispetto per l’essere umano, mercificato e trattato alla stregua di una cifra qualunque all’interno di un budget.